Praticare e insegnare yoga nell’attuale contesto storico e culturale in cui viviamo, rende inevitabili domande che non avevano ragione di essere in India e neppure nel nostro mondo, quando a fine Millennio scorso, lo yoga entrava decisamente nella nostra vita e diventava un fenomeno di più vaste dimensioni. Tanto più oggi queste domande sono attuali, in quanto a livello nazionale e governativo ci viene chiesto una certa regolamentazione della professione dell’insegnante di yoga, anche a tutela degli utenti/allievi. Questo comporta interrogarsi su che cosa possa ancora considerarsi yoga viste le trasformazioni che ha subito nel tempo e sulla direzione da dare al suo variegato mondo e al suo insegnamento. Domande tipo: Che cos’è lo yoga? Che cosa significa una pratica rispettosa della tradizione? E quante tradizioni vi sono? Quale conoscenza cerchiamo attraverso la pratica dello yoga? Tale conoscenza è legata al passato e a una certa cultura, quella indiana, o è di ordine universale?, sono più urgenti che mai.
Inoltre, diversamente dalle origini, oggi lo yoga è sul mercato, è in vendita. Un tempo non ci si poneva l’obiettivo di insegnare; se questo avveniva, era l’esito di una trasformazione interiore che traboccava riversandosi nelle relazioni. Oggi, invece, ci si può iscrivere a scuole di formazione, magari senza aver mai praticato prima, quindi senza essere stato mai allievo o allieva; scuole che riprendono una struttura quasi universitaria, il cui modello spesso e volentieri noi mettiamo in discussione, perché troppo nozionistico e specialistico, spesso carente di un percorso esistenziale.
Il pericolo di oggi è anche dato dal fatto che il pubblico si accosta allo yoga avendone già una idea precostituita, ossia visto come una disciplina relativa solo al benessere e al rilassamento. Chi ha l’onestà deontologica di proporre lo yoga per ciò che realmente è, va incontro a difficoltà di vario genere e a malintesi. Molti insegnanti allora lo adattano alla richiesta del momento. Ad esempio quando ho iniziato a praticare lo yoga diversi decenni fa ormai, era chiaro a tutti che fosse principalmente una via di ricerca interiore e poi come riflesso era anche una disciplina per mantenersi in buona forma e salute. Oggi la prospettiva si è rovesciata e sono pochi coloro che perseguono il suo vero obiettivo.
Nel panorama odierno si trova di tutto. C’è uno yoga terapeutico e uno vissuto come accompagnamento allo sport; uno yoga visto come salute e uno come stile di vita; persiste pure uno Yoga come ricerca interiore e disciplina spirituale; uno yoga come ecologia profonda. Una classificazione generale può essere quella tra yoga posturale – yoga meditativo – yoga religioso. Ci sono pure diversi stili e non li voglio citare per non far torto a nessuno.
Già i diversi esponenti delle federazioni yoga sparse in Europa e in Italia, si dettero raduno alla fine degli anni ’80, per definire meglio che cosa fosse lo yoga nel suo significato più vasto e conclusero in questo modo: “Lo yoga è una scienza spirituale e disciplina a mediazione corporea, ma non solo corporea”. La definizione apriva così una riflessione più vasta di quella che considerava solo il suo aspetto di benessere psicofisico. Erano del resto quegli gli anni in cui si radicava l’esperienza yogica nel nostro mondo, attraverso l’apporto di grandi figure di riferimento come Van Lysebeth e Gerard Blitz, Desikachar e Iyengar, Shivananda e Satyananda, Gitananda Giri, Pattabhi Jois e yogi Bhajan, solo per citarne alcuni. Personalmente ho conosciuto una parte di questi in vari periodi della mia vita, avendo iniziato a praticare alla fine degli anni ’70, appena adolescente, quando si era passati dalla moda esotica hippy e dalla contestazione e lo yoga diventava sempre più popolare.
Lo Yoga come Scienza Spirituale
Prima di analizzare i due termini, scienza e spirituale, ricordiamo velocissimamente l’origine del termine yoga. Il primo testo in cui appare tale parola è il Rgveda. Yoga deriva dalla radice YUJ ovvero “aggiogare”, “unire”, “congiungere”. Emerge quindi, fin dai primordi, l’idea di yoga come un cammino di unione. All’interno dell’Induismo (Sanatana Dharma Samgha) si svilupparono sei scuole tradizionali, chiamate Darshana (specchi di percezione spirituale), ritenute ortodosse perché aderenti all’autorità degli antichi Veda. Lo yoga è, per l’appunto, una delle sei Darshana. Utile ed interessante andare alle origini dei termini. Dalla consonante indoeuropea D che significa luce riflessa (KA sono invece le luci e le acque primordiali increate), deriva appunto il termine Darshana dalla radice DRS che significa “collegarsi al moto della luce”, più propriamente “vedere”, o visione intellettuale.
Nella formazione della radice indoeuropea YUJ, l’azione di riunire si riferiva anzitutto al fatto di attaccare i buoi o i cavalli al carro. Nello yoga visto come sistema filosofico, invece, l’unione avveniva tra l’anima individuale e quella universale. Ma yoga impersonava pure il figlio di Dharma, la Legge e la Giustizia e di Kriya, l’Azione religiosa che tramite l’unione col divino conferiva forza al rito. Oggi, sotto il nome di yoga è compreso un grande insieme di insegnamenti filosofici e di tecniche pratiche sviluppatesi originariamente in India e successivamente nel resto del mondo nel corso di migliaia di anni, da oltre 50 secoli.
L’assunto fondamentale della filosofia yoga è che tutto ciò che esiste, ogni fenomeno materiale che percepiamo con i nostri sensi ed anche ciò che non riusciamo a percepire, non è altro che manifestazione di un’unica realtà, l’Uno. Questa realtà ultima è costituita da un’Essenza assoluta, uno Spirito, un Vuoto, una Non forma che è contenuto e contiene tutte le forme, cioè tutti i fenomeni, conosciuti e non conosciuti. Lo Spirito (Purusha), pura Coscienza universale di ogni essere, vivente e non vivente, è il presupposto per l’esistenza delle ‚forme; come il bianco della pagina consente di scrivere in esso le lettere e le parole, che formano i concetti, le frasi e il racconto della vita. L’Uno, realtà ultima e trascendente le realtà individuali e relative, è pertanto composto dall’insieme dello Spirito e di tutte le infinite forme esistenti nello spazio-tempo infinito.
Ogni forma è legata a tutto il resto dell’esistente: unità ed interdipendenza di tutti i fenomeni sono concetti complementari alla base della visione yoga del mondo. Mentre lo Spirito è in pace e quiete permanente, la Materia (Prakriti) con le sue infinite forme (guna) sono in perenne movimento e cambiamento. Dallo Spirito immutabile, invisibile, immortale ed eterno, pura Consapevolezza, (del quale è meglio non dire niente, neti, neti = non questo, non quello), Energia indifferenziata ed infinita, è avvenuta la creazione dell’universo, con una grande esplosione cosmica; l’universo è frutto di questo soffio divino, così come gli altri infiniti universi esistenti, ognuno dei quali è una cellula dell’Uno.
Spirituale. Partiamo dal secondo e in questo modo si capisce bene anche il primo. Spirituale significa una realtà che sta oltre il livello tangibile dell’esistenza, oltre l’immediatezza dei sensi (che poi tanto scontata non è) dal quale l’esistenza stessa trae vita, direzione e scopo. Bisogna fare attenzione a non confondere spirituale con religioso. Il primo termine è più inclusivo del primo. Lo spirituale è diverso dal religioso, si può essere spirituali infatti senza abbracciare forme esterne di culto religioso. Con religione infatti s’intende una fede o un sentiero, con un fondatore storico o mitico, che ricerca Dio o l’Assoluto attraverso degli scritti fondativi, delle norme susseguenti e dei riti condivisi da un gruppo che siano visibili; con spirituale s’intende invece una ricerca prevalentemente all’interno di se stessi, nel cuore; una fede personale aperta all’esperienza diretta, al voler cogliere il mistero “da dentro”. Da questo punto di vista religione e spirituale possono anche non essere contrapposti, in quanto lo spirituale potrebbe corrispondere all’aspetto più interiore e mistico delle religione, dunque alla sua essenza.
Ma più in profondità, la spiritualità pare essere uno stato di coscienza senza ego, uno stato di coscienza espansa, senza confini; uno stato di bontà naturale in cui il proprio bene e il bene degli altri coincidono. La consapevolezza della propria unità con gli altri, cioè l’amore universale, è infatti il cuore della spiritualità. L’amore è l’essenza di tutto. Nella spiritualità le dicotomie tipiche della coscienza morale (dharma), quelle tra bene e buono (artha e sreya) contrapposte spesso al piacevole (preya/kama), o la preoccupazione dei meriti o dei demeriti di una certa azione (karma) vengono superati (kriya). Ma vengono superati perché la spiritualità si occupa della liberazione (moksha), detto in altri termini si occupa della Realizzazione del Sé, la qual cosa incorpora il piacere e la morale. L’Induismo lo sa bene con la sua elaborazione degli stadi della vita. La moksha sta all’origine e alla fine di tutto un percorso esistenziale spirituale dell’individuo, dall’infanzia fin alla vecchiaia.
Per dirla con le bellissime parole del maestro Paramahansa Yogananda: “Lo yoga è la scienza del contatto personale col divino colto in tutte le sfumature del creato”. Un cammino esperienziale e pratico, che non esclude la religiosità e che rispetta qualsiasi credo, ma che al contempo, nel suo intimo, include e insieme trascende le religioni istituite. Una spiritualità diremo noi incarnata e laica. Scienza. Nell’indagine scientifica sperimentale ci s’interessa dell’oggetto osservato e poi di formulare teorie e modelli; nell’indagine yogica è invece il soggetto osservante il campo d’interesse. Secondo il Vijnanabhairava tantra, yogin è colui che cerca la relazione tra soggetto osservante e l’oggetto osservato, più l’atto del conoscere stesso (LXXXI). Quello che la scienza moderna si dimentica è che l’oggetto osservato lo è in quanto esperienza di un soggetto che lo osserva. Osservandolo il soggetto restringe il campo di indagine, formula ipotesi e cerca conferma o le confuta. Insomma ci troviamo pur sempre in una realtà intrinsecamente e irrimediabilmente soggettiva e selettiva.
Ma c’è un problema di fondo ancora più importante ed è la confusione che facciamo quando identifichiamo il soggetto che indaga con la mente. La mente è solo uno strumento. Il soggetto è il Testimone, è l’Atman (il Sé) in fondo al cuore. Lo scopo dello yoga è quello di far cessare le increspature delle onde mentali e quando queste si fermano emerge l’oceano del Sé. Il mondo è creato dalla proiezione mentale, ma oltre la mente c’è l’Assoluto, di cui se proprio si deve dire qualcosa è Satcitananda, ossia Essere-Coscienza-Beatitudine (Yoga Sutra, I,2-3-4; IV,4; VJB, XXVII)
Noi siamo parte del Tutto e abbiamo la nostalgia del Tutto; abbiamo un richiamo profondo di questa dimensione oltre le porte del tempo e dello spazio. Solo che noi ci percepiamo costretti in un spazio tempo, in un segmento della Totalità e ci identifichiamo con la forma che abbiamo preso. Ci dimentichiamo che noi siamo luce e vibrazione, non siamo questo corpo che vediamo coi sensi, né la mente con le sue identificazioni. La fisica quantistica ci dice che siamo “non locali”.
Il richiamo dell’Oriente afferma da millenni con forza che l’unica Scienza desiderabile è quella che si pone davanti al Sé e l’unica tecnica possibile e auspicabile è quella che conduce alla sua realizzazione. Tutto il suo centro sta nella sconvolgente intuizione che il divino dimora in me: “Io Sono Quello” o “tu sei Quello” (Tat twam asi) e nel volerlo sperimentare.
Lo yoga dunque si propone proprio come obiettivo finale la sospensione dei processi rappresentativi che sostituiscono simboli fittizi alla realtà, per giungere alla percezione diretta della realtà. Lo yoga sostiene che a priori di ogni dimensione oggettiva esiste una dimensione soggettiva, una Coscienza che costituisce il fondamento ultimo e permanente della realtà. Questa è l’esperienza del Samadhi, la quale svincola, sospendendola, anche solo per un attimo, quell’attività mentale che è sostegno alla settorializzazione della realtà e nella quale la coscienza rischia di rimanere imprigionata. Patanjali la definisce come uno stato di “rapimento vuoto e luminoso”; lo HathaYoga Pradipika come uno stato che è insieme “vuoto e pienezza” (IV,5-7). Le condizioni per il Samadhi sono favorite dalla pratica costante (abhyasa), dal distacco sensoriale (vairagya), dalla fede e abbandono (isvarapranidhana), rappresentato per eccellenza dal pranava Om, e da qualità interiori, quali la compassione, l’equanimità e la fraternità tra gli esseri (Yoga Sutra il cap. I,33-34).
Lo Yoga come Disciplina a mediazione corporea
Anzitutto vediamo la radice indoeuropea da cui deriva disciplina ed è la stessa di Darshana col significato “collegarsi al moto della luce”. La disciplina è dunque una strada che mostra, una strada da seguire, una guida, nella nostra accezione potremo tradurla come un ordinamento interiore che porta armonia. E perché corporea? L’intuizione di fondo è semplice e complessa al contempo: Il corpo è un microcosmo che riproduce in sé la complessità dell’universo intero, sintesi e punto di arrivo di un processo evolutivo che coinvolge tutte le categorie, gli elementi, le forme e le forze della natura. Non è poesia quando si dice che siamo fatti di materia stellare. La Shiva Samhita recita: “In questo corpo, il monte Meru, cioè la colonna vertebrale, è circondato da sette isole; ci sono fiumi, mari, montagne, campi e anche i signori dei campi. Ci sono in esso veggenti e saggi; così come tutte le stelle e i pianeti. Ci sono pellegrinaggi sacri e santuari e coloro che presiedono i santuari. Anche il sole e la luna, agenti di creazione e distruzione, si muovono in esso. Ci sono anche l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra” (II,1-3).
Ora lo sa bene chi pratica, il punto principale non è l’esercizio fisico fine a se stesso, ma la consapevolezza del corpo e del respiro che per forza di cose si trasfonde nella sfera mentale, vista l’unitarietà del complesso psicofisico umano. L’obiettivo comune di tutte le posture è dare tono al sistema neuromuscolare. Gli asana e gli esercizi di respirazione mirano al controllo e flusso dell’energia vitale (pranayama). Adottando una posizione si ha la coordinazione tra sistema respiratorio, sistema nervoso e sistema muscolare, dando sintonia al fisico come al mentale, al di là di ogni dualismo. Nell’Hatha Yoga Pradipika si dice: “Manas e prana sono mescolati l’un l’altro come il latte e l’acqua, e la loro attività è uguale. Dove c’è prana, il manas entra in attività; dove c’è manas, il prana entra in attività” (IV,24).
Chi pratica yoga cerca anzitutto l’integrazione e l’armonia. In fin dei conti è l’esperienza dell’unitarietà di corpo-respiro-mente ciò che distingue lo yoga dagli esercizi convenzionali. Lo yoga quindi anche nel suo aspetto più fisico/organico, appare più che altro come un esercizio interiore; un riappropriarsi di un linguaggio all’interno di sé. La cura dello yoga va molto oltre quella del mantenere in forma e in salute.
“I numerosi esercizi yoga anche solo quelli fisici corporei rappresentano un’igiene fisiologica molto superiore alla ginnastica e agli esercizi di respirazione, in quanto non è soltanto scientifico-meccanica, ma anche filosofica/simbolica. Attraverso le sue tecniche, lo yoga mette il corpo in contatto con l’interezza dello spirito, come risulta dal pranayama in cui il prana è al tempo stesso il respiro e l’universale dinamica del cosmo. Lo yoga apre l’individuo a un esperienza cosmica, l’emozione fisica (innervazione) si collega con quella spirituale (idea universale), ne deriva una vivente interezza che nessuna tecnica potrà mai produrre” (Carl Gustav Jung).
Ecco un accenno del grande maestro André Van Lysebeth: “Nello Hatha Yoga, la ritenzione del respiro provoca innanzitutto un liberazione di energia, di prana nel corpo, seguita da una migliore ripartizione in tutto l’organismo. Lo yogin vuol acquisire il potere di dirigerlo a volontà verso tutte le parti del suo corpo dove egli giudica sia necessario inviarlo” (Pranayama, la dinamica del respiro). L’esercizio sul respiro, stimolando il nervo vago, ristabilisce l’equilibrio neurovegetativo.
Nello Hatha Yoga si esplorano tre luoghi fisici che dischiudono l’esperienza dell’infinito nel nostro corpo psichico. Sono la spazio addominale, quello toracico e quello cerebrale. Ed è per sviluppare e mantenere la facoltà dell’attenzione più stabile che gli yogin prendono il corpo come supporto dell’esercizio mentale, in quanto quest’ultimo se non coltivato adeguatamente è talmente agitato che la coscienza si disperde costantemente.
Lo yoga è dunque una via che aiuta a conoscersi in modo diretto, a comprendere i processi che regolano il nostro corpo, le nostre emozioni e la nostra mente, ma questo non è tutto! Avendo preparato il terreno fertile ad una buona pratica meditativa, è possibile arrivare a trascendere il nostro ego, che secondo le scritture classiche yogiche è fonte di ignoranza e illusione, poiché ci separa dal Tutto. La conoscenza intima che dona la disciplina dello yoga deve condurre al superamento del senso di separazione che è alla fine la fonte di ogni afflizione e dolore. Questo è il vero obiettivo dello yoga spesso sottaciuto, ma sotteso alla pratica. Lo yoga non potenzia l’ego (ahamkara), ma sospinge oltre la personalità. Non si ricerca la perfezione della forma fine a se stessa, ma l’essenza spirituale. Quindi ogni qualvolta la tecnica psico-corporea prende il sopravvento, noi snaturiamo l’identità profonda del cammino yogico.
Il Maestro (Divyashakti Yogin) Alberto Camici è nato in Italia a Livorno e vive ai Castelli Romani. Ha iniziato lo studio e la pratica dello Yoga e della Meditazione fin da adolescente nel 1977 sotto l’ispirazione di suo nonno paterno e l’ha continuato ininterrottamente fino ad oggi. Ha conosciuto nel suo lungo percorso diversi maestri e testimoni della diffusione dello Yoga in Occidente, come Andrè Van Lysebhet, Gerard Blitz, Eric Baret. Specializzato in Antropologia e Teologia ha pubblicato saggi e monografie a carattere Esoterico e Spirituale.
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