Nel nostro mondo occidentale, specie in Europa e nel nostro paese da ormai più di cinquant’anni, lo yoga è una realtà consolidata e ha assunto una colorazione diversa coi suoi stili, a seconda di come è avvenuta la sua trasmissione dal suo paese di nascita l’India, e dei bisogni a cui la sua pratica risponde. Già multiforme nel suo paese d’origine, ma non per questo diviso in se stesso tra i sui diversi rami, da noi oggi invece potrebbe apparire con aspetti talvolta sconcertanti e distanti l’uno dall’altro, perdendo di vista la sua unità di fondo che è di origine squisitamente spirituale, il che non equivale a dire religiosa, o almeno non solo religiosa.
Uno si chiede quale stile di yoga scegliere e a parte la famosa classificazione che fece svami Vivekananda ai primi del ‘900 tra Hatha Yoga, Kundalini Yoga, Raja Yoga, Mantra Yoga, Laya Yoga, Jnana Yoga, Bhakti Yoga e via dicendo, occorre aver presente la genesi e lo sviluppo di un fenomeno umano, culturale e spirituale così vasto. Già i diversi esponenti delle federazioni yoga sparse in Europa e in Italia, si dettero raduno alla fine degli anni ’80, per definire meglio che cosa fosse lo yoga nel suo significato più vasto e conclusero in questo modo: “Lo yoga è una scienza spirituale a mediazione corporea, ma non solo corporea”. La definizione apriva così una riflessione più vasta di quella che considerava solo il suo aspetto di benessere psicofisico. Erano del resto quegli gli anni in cui si radicava l’esperienza yogica nel nostro mondo, attraverso l’apporto di grandi figure di riferimento come Van Lysebeth e Gerard Blitz, Desikachar e Iyengar, Shivananda e Satyananda, Gitananda Giri, Pattabhi Jois e yogi Bhajan, solo per citarne alcuni. Personalmente ho conosciuto una parte di questi in vari periodi della mia vita, avendo iniziato a praticare alla fine degli anni ’70, appena adolescente, quando si era passati dalla moda esotica hippy e dalla contestazione e lo yoga diventava sempre più popolare.
Al di là di questa premessa necessaria, lo yoga è piuttosto un approccio globale e sperimentale che si avvale di un insieme di tecniche specifiche e che si rifà alla tradizione dell’India. Esso tende, mediante una progressiva presa di coscienza, all’armonizzazione delle facoltà corporee, affettive, mentali e spirituali dell’essere umano. Il praticare posizioni (asana) e la respirazione controllata (pranayama) insieme, in uno stato di rilassamento e di concentrazione, con la consapevolezza e il rispetto dei limiti ma anche delle possibilità del proprio corpo, conduce all’autogestione del potenziale interiore. Gli effetti si traducono inizialmente nello star meglio, poi in una maggiore disponibilità e apertura d’animo e in una maggiore efficacia di azione concreta: “Lo yoga è abilità nell’agire” afferma la Baghavad Gita, considerando questa “abilità” in una accezione più vasta, ossia come rettitudine che proviene da una disciplina (sadhana) e da una coscienza risvegliata. Lo yoga non è certo tutta la saggezza, ma sicuramente una preparazione ad essa, una via per ricercare la verità.
Esso è aperto a qualsiasi forma di spiritualità e di religione, anzi, può nutrirle dal di dentro, fornendo ad esse una metodica precisa di sviluppo interiore che aiuti la meditazione, la preghiera, e di conseguenza l’interiorizzazione del Mistero che viene celebrato e creduto, per viverlo dal cuore. La pratica yogica infatti ha tutta una sua ritualità e un clima interiore che aiuta a riappropriarsi personalmente della dimensione del sacro. Ora, se accettiamo che la sua pratica giova al corpo e alla mente per ricentrarsi, questo non può che riverberasi e far bene anche all’anima, vista l’unitarietà dell’individuo, e non solo, fa bene anche a tutto il corpo sociale, perché genera più armonia. L’insegnante di yoga acquisisce una competenza nell’ambito di una scuola appositamente strutturata per la trasmissione di questa scienza e disciplina interiore, ma si sente parte di una comunità più vasta di ricercatori dell’Assoluto e amici del creato. Da quest’anno, l’insegnamento dello yoga rientra anche nelle attività professionali disciplinate dalla legge.
Certamente molto dipende da lui e dalla sua formazione quindi. Né guru, né psicoanalista, il maestro di yoga, ha comunque una vocazione e una competenza. Delle due la più difficile da definire è la vocazione che dipende da una serie di motivazioni esistenziali legate alla sua storia personale e trae origini da istanze ben anteriori al progetto di insegnare: il bisogno di esplorare la propria interiorità e comprenderla in modo sperimentato e non solo appreso dai libri; l’aver attraversato una sofferenza esistenziale o una insoddisfazione profonda che apre alla ricerca. Non a caso lo yoga si definisce come una via per liberare l’essere umano dalla “dukka”, parola sanscrita dai molti significati che indica al tempo stesso dolore fisico, sofferenza psichica, senso di vuoto e inquietudine. Provando un forte bisogno di migliorarsi, l’insegnante ha trovato lui per primo un’esperienza globale e unificante che lo ha cambiato e quindi portato a ritrasmettere a sua volta ciò che ha conosciuto e che ama. Questo è molto importante perché in questo modo il suo insegnamento sarà libero e liberante, ovvero non creerà dipendenza o attaccamento alla sua figura, ma rilancerà l’allievo alla scoperta di se stesso. Il maestro di yoga rimane certo un accompagnatore e una guida sul cammino delle liberazione (moksha), diciamo meglio un testimone autorevole, esperto nell’arte dell’ascolto e del discernimento (viveka).
Oggigiorno nel panorama delle varie proposte, potremo distinguere tra Yoga Posturale, Yoga Meditativo, Yoga Religioso e Yoga terapeutico, senza dimenticare però che esiste un solo Yoga e che nel tempo ha incorporato e scambiato nuove influenze. Le differenze più importanti sono tra forme principalmente incentrate sul corpo che derivano dall’Hatha Yoga, come il Viniyoga, l’Astanga Vinyasa, l’Anusara, lo Iyengar, il Jivamukti e il Bikram yoga, in cui la meditazione viene introdotta in uno stadio più avanzato, e forme che insistono sull’aspetto mentale/trascendente e magari incoraggiano solo una parte ristretta dedicata al corpo, tipo la Meditazione trascendentale, il Sahaja yoga, la Diksha, Brahma Kumaris, Sant Mat. Oppure in uno yoga che si rifà prevalentemente alle due grandi tradizioni religiose/spirituali indù, quella shivaita e quella vaisnava, rispettivamente lo Yoga tantrico o Kundalini yoga, lo Shivananda yoga, il Bihar yoga e il Bhakti yoga. E’ da notare però che rimane sempre importante l’ancoraggio al corpo e coltivare la salute fisica e mentale, per sostenere il passaggio delle energie negli stadi più avanzati della pratica. Esiste infine pure lo Yoga terapeutico, come il Bihar yoga e il Viniyoga, ma ogni tipo di pratica yogica è alla fine terapeutica. Diciamo che alcuni stili si rivolgono più al singolo che al gruppo e di conseguenza sono più mirati anche per la cura di certi sintomi.
Non si deve dimenticare che molti dei maestri (alcuni dei quali monaci) che dall’Oriente sono venuti in Occidente per insegnare, hanno trasmesso una visione unitaria, laica e religiosa al contempo, dove l’Hatha Yoga (yoga psicofisico e dell’equilibrio delle polarità), il Kundalini Yoga (yoga dell’energie) e il Raja Yoga (yoga meditativo), sono visti e praticati come un “corpus” unico in relazione e non in antagonismo, come vuole del resto il motto di tutto l’Induismo classico, il “Sanatana Dharma Sangha”, cioè la religione di coloro che seguono la Legge universale, che recita: “vedi l’unità nella diversità” (Rg Veda). Personalmente il mio insegnamento si rifà a questa visione dello yoga come un “corpus” unico in progressione di apprendimento fatto di purificazioni/satkarman, posizioni/asana, respirazione ed energia/pranayama, sigilli/mudra, vibrazioni sonore/mantra, visualizzazioni/yantra, meditazione e comunione con l’Uno, dove l’individuo si sperimenta come un cosmodiagramma e psicodiagramma in armonia col Tutto. Una visione olistica si dice oggi.
Non possiamo dimenticare però che seppur lo yoga sia uno, ossia “unione della coscienza individuale con la Coscienza universale”, attraverso la cessazione delle modificazioni della mente ordinaria per entrare in una realtà più vasta, come recita lo “Yoga Sutra” di Patanjali: “citta vritta nirodha” e che durante i millenni – tanto antico è lo yoga – si sia incontrato e impollinato vicendevolmente tra una forma e un’altra, è anche vero che gli effetti di tale pratica possono essere diversi. C’è uno yoga che porta all’assoluto distacco (kaivalya) dal mondo come il Samkya e lo Yoga classico, e uno che porta ad attraversare il mondo, valorizzandone le esperienze e le forme, pur non assolutizzandole, più tipico invece del tantrismo e dello Yoga tantrico. E quest’ultimo mi pare sia più consono anche alla formazione culturale e religiosa alla quale apparteniamo noi in Occidente, ossia una visione più unitaria e non dualistica. Quando infatti si parla di “kundalini”, “prana”, “chakra”, o del corpo energetico sottile, è dalla tradizione tantrica che si stanno prendendo i termini. Ma questo è un aspetto più tecnico che apre tutta una serie di considerazioni tra esperti e praticanti che va molto oltre questo articolo e meriterebbe di essere trattato in un secondo momento. Ciò che ad esempio è l’oggetto del Raja Yoga, ossia la mente, nei testi tantrici di Hatha Yoga, è il “prana”, ma i gradini del sentiero yogico sono pressappoco gli stessi.
Il Maestro (Divyashakti Yogin) Alberto Camici è nato in Italia a Livorno e vive ai Castelli Romani. Ha iniziato lo studio e la pratica dello Yoga e della Meditazione fin da adolescente nel 1977 sotto l’ispirazione di suo nonno paterno e l’ha continuato ininterrottamente fino ad oggi. Ha conosciuto nel suo lungo percorso diversi maestri e testimoni della diffusione dello Yoga in Occidente, come Andrè Van Lysebhet, Gerard Blitz, Eric Baret. Specializzato in Antropologia e Teologia ha pubblicato saggi e monografie a carattere Esoterico e Spirituale.
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