“Lo abbiamo fatto, figli di puttana” così Bridget Dunlap, una nota imprenditrice del Texas, esattamente un anno fa, si rivolgeva ai suoi accaniti oppositori il giorno dell’inaugurazione del suo Container Bar in Rainey Street, Austin.
La Dunlap annunciò l’apertura del bar esattamente tre anni prima della realizzazione effettiva, questo perché la città di Austin, nel Texas, non era pronta a supportare con leggi urbanistiche adeguate questo tipo d’intervento. Il locale infatti, risulta essere composto da sette diversi contenitori di spedizione, che da classici container che conosciamo tutti, sono stati convertiti in ambienti per un esercizio aperto al pubblico.
Un’impresa fuori dalle righe ma è proprio questo tipo di risultati che contraddistinguono tutte le opere gestite da Bridget, la quale con la sua società la Dunlap atx ha aperto una serie di altre aziende in città, che hanno come minimo comune denominatore, l’audacia, la tenacia, l’amore per la propria città e per la riqualificazione di essa (vedi www.dunlapatx.com oppure bridgetdunlap.com).
Strano è un’imprenditrice a compiere queste azioni e non un’amministrazione pubblica…trovate in questo un tono polemico…beh lo vuole essere. In Italia non è mai successo che le leggi urbanistiche si siano adeguate, e notate dico adeguate e non piegate, ai cambiamenti degli usi e costumi della società. Ovvero, l’opera avanguardista di un privato ha fatto si che la comunità ne traesse dei benefici. Fantastico!
Con ciò non affermo che tutti dovremmo trasferirci ad Austin, ma ritengo che lo Stato debba dare più fiducia alle idee dei singoli ed incentivarle per renderle reali.
Tornando all’analisi architettonica, la stesura del progetto del Container Bar si avvale della collaborazione del Hendley/Knowles Design Studio (vedi www.knowlesps.com) con Francisco Arredondo del North Arrow Studio (vedi www.northarrowstudio.com).
L’anima del progetto è la mobilità, ovvero la possibilità di spostare l’oggetto Bar ovunque, ed in questo il modulo essenziale e flessibile del container l’ha fatta da padrone, mentre l’imprinting del reuse ha fatto il resto.
Quindi sette volumi, trattati in modo diverso, si sormontano l’uno sull’altro per realizzare un piano sospeso ed una corte interna con doppia altezza che affaccia sul bancone bar. La maglia portante di questi elementi e’ un semplice telaio in metallo fondato a terra, messa a supporto dei container.
La bravura e professionalità dei tecnici non ha alterato l’identità del singolo vano, ma nel riconvertirlo funzionalmente lo ha esaltato. Ogni contenitore doveva essere “avvolto” in qualcosa di diverso, matericamente e cromaticamente parlando.
Gli interni, forse dopo il permesso di costruire, sono stati la sfida più affascinante e dura.
Come rendere funzionali e belli degli ambienti che fino al giorno prima trasportavano qualsiasi tipo di merce senza alcun confort se non la protezione dagli agenti atmosferici?
Il primo passo è stato applicare un rivestimento interno che coibentasse il tutto per proteggere un’ipotetico cliente dal caldo e dal freddo, ma nello stesso tempo che presentasse un design diverso per ogni vano, in modo tale da poter differenziare le destinazioni d’uso. In più sono stati applicati degli mini-split per raffreddare e riscaldare artificialmente.
L’illuminazione e la scelta delle cromie varia dal colore neutro della finitura naturale del legno locale all’optical di alcuni oggetti di arredamento, poltrone, sedie e tavoli di colore fluo, che contrariamente a come si potrebbe immaginare non infastidiscono il fruitore, ma lo invogliano a trovare il suo posto preferito. La chicca, a mio parere geniale, è stata la scelta dei sedili finestre corredati da pellicole acriliche viola e blu, le quali filtrando la luce solare rendono delle atmosfere completamente differenti.
E’ stata ardua l’impresa, ma alla fine è il risultato si è rivelato un capolavoro di creatività. Come dice Bridget ” Dream big and deliver…on your own terms” (sognare in grande e consegnare…alle tue condizioni).
per saperne di più: www.austincontainerbar.com